Tra luci, corse e cinema: la ventesima edizione del Festival di Roma
Scritto da Redazione il Ottobre 29, 2025
Dal 15 al 26 ottobre 2025, l’Auditorium Parco della Musica di Roma si è trasformato in un microcosmo pulsante di luci e storie: la ventesima edizione del festival del cinema di Roma ha celebrato l’arte cinematografica nella sua complessità, tra proiezioni, incontri, red carpet e il frenetico ritmo della Stampa. Con il badge al collo e senza taccuino, mi sono immersa in questo universo, consapevole che il lavoro che mi aspettava sarebbe stato intenso e stimolante.
Le giornate cominciavano presto, spesso con il cuore già in affanno, correndo tra le sale per non perdere la prima proiezione. Tre, quattro film al giorno, talvolta consecutivi, lasciavano poco spazio per riflettere, per respirare, per annotare. Tutto doveva essere registrato nella mente: dialoghi, inquadrature, scelte di regia, espressioni degli attori. Ogni film era un mondo a sé, e spesso le differenze stilistiche e narrative tra le opere diventavano ancora più evidenti se viste una dopo l’altra, senza pause.
Entrare in sala era come entrare in un altro universo. Il buio avvolgeva, il brusio lentamente si spegneva, e lo schermo diventava un portale: storie che oscillavano tra realtà e finzione, tra quotidiano e sogno, che ti catturavano o ti lasciavano interrogativi. Alcuni film sorprendevano per audacia e coerenza, altri deludevano per debolezza narrativa o scelte stilistiche discutibili. Era necessario mantenere lo sguardo critico anche quando gli occhi chiedevano riposo, analizzare senza indulgere né lodare troppo facilmente, restituire ciò che si era visto in articoli precisi, immediati, incisivi.
Le conferenze stampa rappresentavano un vero e proprio campo di battaglia intellettuale: le domande non potevano essere mai banali, e le risposte dei registi o degli attori richiedevano attenzione assoluta, perché ogni parola poteva rivelare un’intenzione narrativa, un dettaglio tecnico o una scelta stilistica decisiva.
Seduta tra i colleghi, si percepiva la tensione sottile che avvolgeva la sala: qualcuno prendeva appunti mentali, altri soppesavano il tono di una frase, tutti cercavamo di cogliere sfumature che sarebbero poi diventate recensione. Spesso la mente correva più veloce della voce, già pensando a come tradurre in parole la complessità di ciò che stava emergendo: una battuta apparentemente innocua poteva nascondere un’intera filosofia di regia, un gesto dell’attore un segnale sul personaggio o sul ritmo del film. Non era sufficiente ascoltare: bisognava leggere tra le righe, osservare le pause, gli sguardi, le micro-espressioni, e allo stesso tempo gestire la stanchezza accumulata dai film visti poco prima, dai corridoi percorsi in fretta, dalle interviste da incastrare tra una conferenza e l’altra.
Il red carpet del festival del cinema di Roma, invece, era un universo parallelo di fascino e alienazione. Lì glamour e fatica si fondevano in modo inestricabile: luci accecanti, flash incessanti, sguardi studiati e passi calibrati. Gli attori sfilavano tra applausi, microfoni e telefoni che catturavano ogni dettaglio, e ogni passo sembrava pesare quanto un film intero: alcuni riuscivano a trasmettere naturalezza e spontaneità, altri apparivano come macchiette costruite, e anche i sorrisi più perfetti tradivano tensione o disagio.

Tra i film più apprezzati e premiati di questa ventesima edizione, il concorso Progressive Cinema ha incoronato Left-Handed Girl (La mia famiglia a Taipei) di Shih-Ching Tsou, un’opera che ha convinto la giuria per l’equilibrio tra scrittura intima e respiro politico. Il Gran Premio della Giuria è andato invece a Nino di Pauline Loquès, film di sensibilità vibrante e rigore visivo, mentre il premio per la Miglior Regia è stato assegnato a Wang Tong per Chang Ye Jiang Jin (Wild Nights, Tamed Beasts), per la capacità di trasformare la materia del reale in un racconto sospeso tra memoria e visione.
Il Premio Monica Vitti come Miglior Attrice è andato a Jasmine Trinca per Gli occhi degli altri, prova d’attore segnata da una tensione emotiva costante, mentre il Premio Vittorio Gassman al Miglior Attore è stato attribuito a Anson Boon per Good Boy, interpretazione fisica e tormentata che rimane impressa per intensità e misura. La Miglior Sceneggiatura è stata firmata da Alireza Khatami per The Things You Kill, racconto morale sul confine sottile tra giustizia e colpa.
Il Premio Miglior Documentario è stato conferito a Cuba & Alaska di Yegor Troyanovsky, mentre il riconoscimento come Miglior Opera Prima Poste Italiane è andato a Tienimi presente di Alberto Palmiero, che ha saputo unire sguardo personale e misura narrativa.
A completare il quadro dei riconoscimenti, i Premi alla Carriera sono stati assegnati a Richard Linklater, Jafar Panahi ed Edgar Reitz, quest’ultimo insignito anche del titolo di Master of Film, a suggello di un percorso artistico che ha ridefinito il linguaggio del racconto cinematografico europeo.
Ogni giorno era una maratona: proiezioni consecutive, conferenze stampa, interviste lampo, scrittura serrata di recensioni e articoli. La stanchezza si accumulava, il ritmo era incessante, ma in mezzo a questa fatica si percepiva la vera essenza del festival: il confronto diretto con le opere, con la cultura cinematografica che pulsa tra le sale, il pubblico, le strade di Roma. C’era la meraviglia di alcune proiezioni, il fascino del red carpet, ma anche la cruda consapevolezza di quanto il lavoro da giornalista sia estenuante: correre, osservare, ascoltare e raccontare tutto senza fermarsi.
Tra le sale, i corridoi dell’Auditorium, le luci intermittenti dei proiettori, il festival diventava quasi fisico: il corpo stanco, la mente sovraccarica, eppure sempre pronta a registrare il più piccolo dettaglio. Alcune scelte narrative dei film sollevavano interrogativi critici, altre aprivano finestre inattese sulle possibilità del cinema contemporaneo. Essere Stampa significa anche questo: osservare le contraddizioni, i limiti, i difetti, senza cedere alla tentazione di un elogio scontato.
Alla fine della giornata del festival del cinema di Roma, quando il badge rimane appeso al collo e la città torna a respirare un ritmo più normale, resta la consapevolezza di aver vissuto qualcosa di unico. Non solo per i film, i premi o il glamour del red carpet, ma per la fatica, l’attenzione, il lavoro di osservazione e restituzione. Il Festival del Cinema di Roma, nella sua ventesima edizione, è stato un caleidoscopio di emozioni, corse, scoperte e critiche: un’esperienza che lascia il segno, e che ricorda quanto il cinema sia potente, anche e soprattutto quando il lavoro dietro le quinte è faticoso, serrato e totale.
Articolo di Ilaria Di Santo
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