Se fossi diavolo, se fossi Dio: San Damiano, limiti, specchi, confini e morali.

Scritto da il Maggio 27, 2025

C’è un collegamento curioso, se vogliamo inquietante, preoccupante persino, tra le vicende portate in scena in San Damiano e quelle che hanno visto protagonisti Gregorio Sassoli e Alejandro Cifuentes, giovani autori che di questo destabilizzante documentario firmano la regia e – in un panorama cinematografico italiano così poco ispirato e audace – anche la produzione e la distribuzione.

Per quanto il paragone possa risultare eccessivo, o insensibile, tra la lotta per la sopravvivenza con la strada e con una sanità mentale che giorno dopo giorno si incrina (quella dei senzatetto protagonisti del racconto documentaristico di San Damiano

Circa due anni fa – come enunciato a inizio film – Sassoli e Cifuentes giravano per il circondario della grande stazione romana, presi nello sperimentare un periodo di volontariato e, al contempo, al lavoro su un progetto di finzione del tutto distante da ciò che poi ne sarebbe venuto fuori. Poi l’incontro con Damian/Damiano, la folgorazione umana, artistica, e di qui San Damiano, tutt’ora distribuito in un numero circoscritto di sale dopo un’autoproduzione e auto distribuzione che, a fasi alterne – e a scapito dell’immediata accoglienza più che positiva della critica – , l’ha visto più volte dentro e fuori dalla programmazione in sala.

Ma passiamo più precisamente al film.

Damiano, ultratrentenne con una travagliata infanzia in Calabria, sbarca a Roma Termini dopo la fuga da un ospedale psichiatrico di Breslavia, Polonia. È alto quasi due metri, calvo, viso tondo e amichevole, fisico asciutto e fare sornione, divertente, soggetto a cambi d’umore che inondano tanto lui quanto chi lo circonda, su di un registro cangiante che sinuosamente sfuma tra la chiacchiera amicale, il commento ironico, afflati di non scontata poesia esistenziale e l’irrefrenabile voglia di cantarne a squarciagola, così come canta le canzoni che ama, la sua vita, il passato indicibile (mai del tutto rivelato nel film) e ciò che lo circonda attimo dopo attimo.

Con uno sguardo attento ai rapporti di forza tra alto e basso, tra il visibile delle monumentali o antiche architetture di quello spicchio di Roma, e l’invisibile umano che sotto/dentro/ai margini di esse si cela; con la stessa attenzione e contemplazione dei campi lunghi dove il tempo passa insondabile e immutato, così come dei primissimi piani di chi, ciclicamente, certi luoghi di nessuno tenta di renderli casa, in cui ogni espressione chiarifica il tempo della vita, della speranza, della sopravvivenza e dell’umanità che riscrive i suoi connotati; in un suggerito equilibrio tra finzionale e fattuale – presa diretta della strada e performance – i registi seguono Damiano nella sua “casa”: il punto più alto di una delle torri delle mura intorno allo storico quartiere San Lorenzo.

Vive lì perché quell’antica torre (occupata illegalmente, ovvio) lo fa sentire un re, al di sopra di tutto, diverso da un qualsiasi altro vagabondo, categoria nella quale non si identifica, o non del tutto, pur amando circondarsi dei suoi rappresentanti.

Conosciamo ad esempio Sofia, donna d’elemosina e forti pulsioni erotiche, con un passato di violenze che racconta, tra spietatezza e ironia, con saltuari ricorsi ad una lingua inglese rispetto cui non sappiamo mai se davvero la padroneggi o meno; Christopher, che in poco tempo diviene amico fraterno di Damiano, di cui ascolta le canzoni, i pensieri e le paure oltre a subirne i pestaggi – assieme pure a Sofia – quando cala la speranza e sale l’alcool; poi Alessandro, Simone, Musa, Vincent, e altre facce, e altre coppie che si giurano amore e fratellanza, che si esibiscono, picchiano, abbracciano di fronte a un obbiettivo che, in barba al buon gusto e all’etica, allo spettatore non risparmia niente.

Come su di una giostra imprevedibile di sali e scendi – avvertire il lettore e ipotetico spettatore potrebbe essere d’obbligo -, vedremo Damiano accoltellato e tradito dalla stessa Sofia che poche scene prima lo definiva il suo uomo, la sua protezione e la sua guida; vedremo poco dopo lo stesso Damiano riprendere, col telefono in una mano, l’altro suo braccio che bracca e pesta un vagabondo accusato di stupro di gruppo, lo vedremo urinare su di una moto parcheggiata alla stazione, esser minacciato dal parente di un altro vagabondo con cui era nata una disputa, e lo vedremo avere rapporti con una ragazza “conosciuta” poco prima alla stazione, senza penuria di esplicitazioni dell’atto.

Per quanto molto si possa dire di San Damiano, specie se in materia di etica e pudore della rappresentazione, nel flusso della visione capita che ogni cosa vada gradualmente a mettersi al suo posto, lì dove deve stare, facendo sì che – solo se ben predisposti, intendiamoci – l’inorridimento lasci spazio alla comprensione, l’eccesso al segno e, soprattutto, che dall’emotività distante e giudicante si passi sempre più all’empatia, alla compassione, all’attenzione accordata e quella che, se non altro, non può che non risultare come una bizzarra, divertente e tragica avventura.

Damiano, che vive lì in cima alle mura di San Lorenzo – a separare i reietti scansati dalla quotidianità di Via Marsala da chi fa serata in uno dei principali quartieri della movida romana – si pone come ideale anello mancante tra due luoghi che molti non vivono che di passaggio, tra chi, come lui, ogni giorno supera limiti e ne crea di nuovi per poter continuare a esistere e chi, sempre come lui, si gode un’ubriacatura che appanna il dolore e fa emergere un po’ di speranza.

Quella di Damiano – di speranza – , ad esempio, è cantare.

Sassoli e Cifuentes lo portano in uno studio di registrazione ad incidere ciò che continuamente scrive e annota sui suoi quaderni e, seppur anche questa scelta possa rientrare nelle vari opinabili pratiche di rapporto tra attore sociale e documentarista, il risultato dell’intuizione è una delle più esplicative scene del film. Attraverso la stonata, urlata, confusionaria sintassi dei suoi scritti, Damiano ci permette di penetrare appena un po’ più affondo nei suoi drammi passati, in un sottinteso trauma materno, in una rabbia incontrollabile che s’affaccia spesso su di una dolcezza immensa, su di un infantilismo al limite della regressione che, scontrandosi con voglie volontà di un uomo adulto in lotta per il suo stesso diritto ad esistere, lo porteranno ad un doloroso epilogo, forse concertante per molti, eppure così naturale, coerente – e che non sveliamo – sino alla chiusura del cerchio: il ritorno in una struttura psichiatrica polacca in cui ancora alloggia, e da cui ancora non ha potuto vedere il film che con tanta forza lo ritrae.

In fondo San Damiano è un film che trae virtù da enormi contrasti. Tra distacco e iper-avvicinamento, tra asciutto realismo e epicità di musica, effetti e quadri, tra stasi del tempo e famelico dinamismo della volontà di sopravvivere, tra violenza e amore, accettabile e inaccettabile, tra il “nostro” mondo e il “loro”…realtà apparentemente distanti eppur separate da labili rovine di un muro di cinta.

San Damiano è il bello di vedere un mondo in cui, all’osso, l’umano gode del suo simile libero, sempre, e nonostante tutto non lo giudica.

San Damiano è rendersi conto di quanto brutto sia potersi permettere l’ingenuità del perdono solo se cacciati fuori, invisibili e inammissibili a tutto ciò che noi definiamo “sociale” nel modo corretto, ossia il nostro modo…un altro contrasto, che per essere apprezzato chiede allo spettatore una violenta inversione di prospettiva.

Come scriveva Shakespeare aprendo il suo Macbeth, appunto, «Fair is foul, and foul is fair» – “Il giusto è sbagliato, e lo sbagliato è giusto”.

Lo stesso Damiano è forse santo in contrasto con certe arrendevolezze nei primissimi piani dei suoi compagni, laddove i registi invece sono attenti alla sua fisicità vitale, spesso inquadrata a figura intera e in perenne movimento. Damiano è santo perché subisce e perdona gli affronti, le coltellate, i tradimenti, le denunce mentre altri perdonano lui; raduna attorno a sé il benvolere di una comunità che insidia l’etica di chi la vede agire, temibile eppure coesa nell’accettazione della transitorietà delle azioni, del male, della violenza e del bene, siccome lo scambio, nel loro mondo parallelo, non è più tanto materiale quanto profondamente e necessariamente ridotto all’umano. E l’umano, si sa, s’arrabbia, si violenta, si ama, si affronta, si perdona, cambia e svanisce allo stesso ritmo con cui i vagoni – che siano arrivi o partenze – aprono e chiudono le porte sulle rotaie alla stazione.

Per scheda tecnica, sinossi ufficiale e informazioni aggiuntive, visita la pagina dedicata al film su Filmitalia.

Articolo di Federico Di Renzo

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